Siamo abituati a pensare, quando si parla di fortificazioni, a ciò che siamo soliti vedere nelle città medievali ben conservate disseminate lungo tutta la penisola italiana: un castello, un sistema di mura ben conservate, una merlatura che ci ricorda assalti nemici respinti o ronde di guardia di soldati armati. E allora per parlare delle mura di Ravello e di come gli antichi abitanti di questa città sapessero difendersi, dobbiamo abbandonare questa visione un po’ da cartolina che abbiamo delineato; niente merlature, niente castelli, niente mura ben conservate; dobbiamo fare attenzione, come si scriveva prima, ai particolari, perché nei particolari c’è la storia di questa città. Il sistema difensivo parla chiaramente di una strutturazione attorno ai nuclei religiosi più importanti della città: un sistema doveva difendere la zona dell’abbazia benedettina di S. Trifone, un altro quella del Convento di S. Agostino, un altro quella del nucleo urbano; ma sicuramente un altro indizio importante che ci viene dalla disposizione dei baluardi difensivi è quello che ci fa capire che l’impianto è avvenuto nel momento in cui Ravello e tutto il ducato di Amalfi non dovevano temere nessun pericolo dal mare, considerata la potenza che la Repubblica marinara di Amalfi godeva in tutto il Mediterraneo. La struttura della Turris Magna, come quella di Fracta, è rivolta alle montagne, indicando che se un pericolo poteva esserci per la città non doveva essere dal mare ma dai monti, per cui occorreva prevedere un sistema di difesa e di avvistamento rivolto a quella zona. I castra intorno alla città di Ravello sono quello di Montalto, che sorge sullo sperone roccioso che divide la valle di Tramonti da quella di Minori e che serviva a prevedere eventuali attacchi che arrivavano dalla zona delle montagne, potendo comunicare visivamente con le strutture di avvistamento di Tramonti (S. Maria la Nova e la Torre del Chiunzi) e con quella di Scala (Scala Maior), e quello di Fracta/Turris Nova. Il centro urbano vero e proprio poi doveva essere difeso da una prima struttura che è quella di “Porta la Terra” che costituiva il punto strategico più delicato, di qui la strada stretta che la caratterizza e gli edifici molto alti che la circondano e che dovette godere anch’essa di ammodernamenti in epoca angioina (la struttura delle torri lo rivela) e che forse era preceduta anche da una porta più a monte considerato che il solito regesto angioino ricorda di costruire un muro che attraverso la cima del Monte Brusara giungesse fino alla porta “S. Martini”, “que est in porta platee dicte terre Ravelli”. La porta di S. Martino doveva essere nelle vicinanze della chiesa dedicata a questo santo che è sulla strada che viene da Tramonti ed è vicino all’attuale cimitero. La zona di S. Martino quindi doveva essere potenziata da questo muro che si univa alla Turris Nova sul Monte Brusara  ma come poi fosse chiusa verso sud non è dato sapere. Sembrerebbe che la struttura di ingresso di Porta la Terra costituisse un nucleo a se stante, cioè chiuso a sua volta a valle, all’altezza dell’attuale Piazza Fontana e che inglobasse l’importante nucleo monastico agostiniano, che le fonti dicono essere stato un fondamentale centro religioso ravellese (addirittura la reliquia del sangue di S. Pantaleone, protettore della città di Ravello, prima di essere conservata in cattedrale era molto probabilmente sistemata in questo cenobio).  Una volta entrati per la porta principale della città il viaggiatore per poter accedere al nucleo più interno di Ravello doveva superare il baluardo della Turris Magna da dove iniziava la vera cinta muraria e che presentava varie aperture di porte più piccole in corrispondenza con le strade che univano Ravello alla costa sia sul lato ovest che sul lato est. Era naturale che lo sperone roccioso di Cimbrone godeva di una difesa naturale che non prevedeva alcun baluardo di mura o torri.

Le fortificazioni di epoca angioina sul mare sono, invece, costituite dalle torri costiere che servivano a difendersi dagli attacchi costieri e che furono poi rafforzate in epoca vicereale, durante la cosiddetta “Guerra di Corsa”.